PAPALAGI

Tuiavii, un saggio capo indigeno delle Isole Samoa, compì un viaggio in Europa agli inizi del secolo, venendo a contatto con gli usi e i costumi del "Papalagi", l'uomo bianco. Ne trasse impressioni folgoranti che gli servirono per mettere in guardia il suo popolo dal fascino perverso dell'Occidente.

Eric Scheuermann, un artista tedesco amico di Hermann Hesse fuggito nei mari del Sud per evitare la prima guerra mondiale, raccolse questo tesoro di saggezza e lo pubblicò. Papalagi è un trattato etnologico sulla tribù dei bianchi; una sorta di rovesciamento del "cannocchiale" antropologico degli etnografi europei che ci riporta l'immagine dell'uomo civilizzato visto con gli occhi del "buon selvaggio". Antonio Catalano ci restituisce lo sguardo disincantato e involontariamente ironico di Tuiavii.

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Dei cassoni di pietra, delle fessure di pietra, delle isole di pietra e di ciò che vi sta frammezzo.

IL PAPALAGI vive in un guscio come una conchiglia marina. Vive fra le pietre come la scolopendra fra le fessure della lava. Le pietre sono tutt’intorno a lui, accanto e sopra di lui. La sua capanna somiglia a un cassone di pietra messo in piedi.

Una cassa che ha molti scomparti ed è tutta bucata.

C’è un solo punto in cui si può entrare e uscire da questa cassa di pietra. Questa apertura il Papalagi la chiama ingresso quando entra nella capanna, uscita quando ne esce fuori, sebbene entrambe siano una sola e unica cosa. In questa apertura c’è una grande ala di legno che bisogna spingere con forza per poter entrare nella capanna. Ma anche così si è soltanto al principio e bisogna spingere ancora parecchie ali prima di essere veramente nella capanna.

 La maggior parte delle capanne sono abitate da più persone di quante ne vivono in un solo villaggio delle Samoa, perciò è necessario sapere con esattezza il nome della famiglia che si vuole andare a trovare. Poiché ogni famiglia ha per sé una parte speciale della cassa di pietra o sopra o sotto o più avanti. E una famiglia spesso non sa nulla delle altre, nulla di nulla, come se fra loro non ci fossero solo pareti di pietra, ma Manono, Apolima, Savaii (tre delle isole Samoa, n.d.r.) e molti mari. Spesso sanno appena il loro nome, e quando si incontrano nel buco da cui si entra si fanno solo di malavoglia un cenno di saluto o si borbottano dietro come insetti ostili. Come se fossero infastiditi di vivere l’uno accanto all’altro.

 Se la famiglia sta in alto, proprio sotto il tetto della capanna, allora bisogna salire molti rami a zig-zag o in tondo, fino a che si arriva al punto dove il nome della famiglia sta scritto sul muro. Lì ci si trova davanti un grazioso capezzolo femminile finto sul quale si preme fino a che risuona un grido che chiama la famiglia. La famiglia guarda attraverso un piccolo buco rotondo munito di piccoli ferri, per vedere se si tratta di un nemico.

 In tal caso non apre. Se invece riconosce l’amico, allora subito slega una grossa ala di legno, accuratamente serrata, e la tira verso di sé, in modo che l’ospite attraverso il passaggio possa entrare nella capanna vera e propria. Questa è a sua volta divisa da molte ripide pareti di pietra, e si passa di ala in ala, da un cassone a un altro cassone sempre più piccolo.

Ogni cassone, che il Papalagi chiama stanza, ha un buco (quando è grande anche due o tre) attraverso il quale entra la luce. Questi buchi sono chiusi con un vetro, che si può togliere quando si vuol far entrare aria fresca nei cassoni, cosa quanto mai necessaria. Ci sono però anche molti cassoni senza buchi per l’aria e per la luce.

 Un samoano morirebbe ben presto soffocato in questi cassoni, perché qui non passa mai un soffio d’aria fresca come in qualsiasi capanna della Samoa. E anche gli odori della cucina cercano una via d’uscita. Spesso però anche l’aria che viene da fuori non è migliore; e si fatica a capire come una creatura qui non debba morire, come per la nostalgia dell’aria non diventi un uccello, come non gli crescano le ali per potersi levare in volo e andarsene dove c’è aria e sole.

 Ogni cassone ha un suo uso particolare. Il più grande e più illuminato serve per i ricevimenti e gli incontri della famiglia o per le visite, un altro per dormire. Qui sono stesse le stuoie, vale a dire esse stanno sollevate su un traliccio di legno che ha delle lunghe gambe, affinché l’aria possa passare sotto le stuoie. Un terzo cassone e per consumare il cibo e per fare le nuove di fumo, un quarto serve a raccogliervi le scorte di cibo, nel quinto si cucina, e nell’ultimo e più piccolo ci si bagna. Questo è il più bello di tutti. E’ ricoperto di grandi specchi, il pavimento è decorato con un rivestimento di pietra colorata e nel mezzo c’è una grande conca di metallo o di pietra in cui scorre acqua che è stata al sole e acqua che non è stata al asole. In questa conca, che è molto grande, addirittura più grande della tomba di un capo, ci si entra per ripulirsi e lavarsi di dosso la molta polvere dei cassoni di pietra. Naturalmente ci sono anche capanne con più cassoni ancora. Ce ne sono persino di quelle in cui anche ogni bambino ha il suo cassone e anche ogni servo dei Papalagi; sicuro persino i suoi cani e i suoi cavalli hanno i loro cassoni.

 Fra questi cassoni i Papalagi trascorre dunque la sua vita. Sta ora in questo, ora in quel cassone, secondo l’ora e il momento. I suoi figli crescono qui, alti sopra la terra, spesso più alti di una palma adulta, in mezzo alle pietre. Di tanto in tanto il Papalagi lascia i suoi cassoni privati come lui li chiama, per trasferirsi in una altro cassone, riservato ai suoi affari, per i quali non vuole essere disturbato e non vuole avere intorno donne bambini. In queste ore le donne e le fanciulle stanno nella cucina e cuociono il cibo, o tirano a lucido le pelli da piedi, o lavano panni. Quando sono ricche e possono tenere dei servi, sono questi che fanno il lavoro, mentre loro vanno a fare visite o a prendere nuove provviste.

 In questa maniera vivono in Europa tante creature quante sono le palme che crescono a Samoa, anzi, molte di più. Alcune hanno il desiderio di boschi e di sole e di molta luce, ma questa in generale, è considerata una malattia che bisogna combattere dentro di sé. Quando qualcuno non è soddisfatto di questa vita di pietra, si usa dire che non è normale.

 Questi cassoni di pietra si trovano spesso molto numerosi l’uno accanto all’altro, come uomini spalla a spalla, e in ciascuno vivono tanta Papalagi quanti ce ne sono in un villaggio delle Samoa. A un tiro di pietra, dalla parte opposta, si leva un’altra fila di uguali cassoni, anch’essi spalla a spalla, e anche in questi abitano tante persone. Così fra le due file c’è soltanto una sottile fessura, che il Papalagi chiama strada. Questa fessura spesso è larga quanto un fiume e coperta di dure pietre. Bisogna camminare a lungo per trovare un tratto libero; ma qui sfociano altre fessure frammezzo ad altre case.

Anche queste sono lunghe come ampi corsi d’acqua dolce e le loro aperture laterali sono anch’esse fessure di pietra della stessa lunghezza. Così si può camminare per giorni interi in queste fessure fino a perdersi, prima di arrivare a vedere un bosco o un pezzo di cielo azzurro. Fra le fessure solo di rado si vede il vero colore del cielo poiché, dal momento che in ogni capanna si trova un fuoco e spesso anche molti fuochi, l’aria è sempre piena di fumo e di cenere, come per l’eruzione di un grande cratere. Quest’aria piove giù nelle fessure, così che gli alti cassoni di pietra sembrano melma delle paludi e gli uomini hanno terra nera negli occhi e nei capelli e sabbia fra i denti.

 Ma tutto ciò non impedisce agli uomini di correre in queste fessure da mattina a sera. Sicuro, ce ne sono molti che trovano in ciò uno speciale piacere. In alcune di tali fessure in particolare c’è una gran confusione e la gente vi scorre dentro come un denso limo. Queste sono le strade in cui si trovano giganteschi cassoni di vetro dove stanno esposte tutte le cose di cui i Papalagi ha bisogno per vivere: panni, ornamenti, copricapi, pelli per le mani e per i piedi, provviste di cibo, carne, e vero nutrimento come frutti e verdure e tante altre cose ancora. Lì esse stanno esposte agli occhi di tutti, per attirare le persone. Nessuno però può prendere qualcosa anche se ne ha grande necessità, per far questo occorre uno speciale permesso e si deve fare omaggio di un sacrificio.

 In queste fessure i pericoli vengono da ogni parte, perché la gente non solo corre intorno, viaggia e cavalca a destra e a sinistra, ma si fa anche trasportare in grandi cassoni di vetro che corrono su nastri metallici. Il fragore è grande. Le tue orecchie ne sono stordite, poiché i cavalli battono con i loro zoccoli sulle pietre, gli uomini vi camminano battendo con forza le loro dure pelli da piedi, i bambini strillano, gli uomini urlano di gioia o di spavento, tutti gridano. In tutto quel rumore non riesci neppure a farti capire.

 Tutto questo insieme: i cassoni di pietra in cui vivono tante persone, le alte fessure di pietra che corrono su e giù come mille fiumi, gli uomini che vi camminano dentro, le grida, il rumore, la sabbia nera e il fumo sopra ogni cosa, senza un albero, senza cielo azzurro, senza aria pulita e senza nuvole, tutto questo è ciò che il Papalagi chiama una città. Una sua creazione di cui va molto fiero. Sebbene qui vivano tante persone che non hanno mai visto faccia a faccia un albero, mai un bosco, mai cielo aperto, ma il Grande Spirito. Uomini che vivono come gli animali che strisciano nella laguna e dimorano sotto i coralli, per quanto questi almeno abbiano la limpida acqua del mare che li lava e il sole che filtra con il suo fiato caldo. E’ davvero fiero delle sue pietre il Papalagi? Non lo so. Il Papalagi è un individuo con strani pensieri. Fa molte cose che non hanno alcun senso e che lo rendono malato, e tuttavia ne vanta i pregi e ne canta le lodi.

 Parlavo dunque della città. Ci sono però molte città, alcune grandi, altre piccole. Le grandi sono quelle dove vivono i massimi capi di un paese. Tutte le città sono sparse come le nostre isole nel mare. Talvolta si trovano alla distanza di una semplice nuotata, spesso però anche a un intero giorno di viaggio. Tutte le isole di pietra sono collegate fra di loro da sentieri ben segnati. Ci si può arrivare però anche con la nave di terra, che è lunga e sottile come un verme e sputa continuamente fumo e scivola veloce su fili di metallo, più veloce di una barca a dodici remi in piena corsa. Se invece vuoi mandare a un amico che sta su un’altra isola solo un saluto non hai nessun bisogno di andare da lui o di scivolare su quei nastri metallici. Soffi le tue parole in fili di metallo, che vanno come lunghissime liane da un’isola di pietra all’altra. E arrivano, più veloci di quanto possa volare un uccello.

 Fra tutte le isole di pietra c’è la cosiddetta campagna, come si chiama in Europa. Qui la terra è bella e fertile come da noi. Ci sono alberi, fiumi e foreste, e qui ci sono anche veri villaggi. Nonostante le capanne siano anche qui di pietra, tuttavia sono circondate da piante con molti frutti, e la pioggia le può bagnare da ogni lato e il vento può poi asciugarle.

 In questi villaggi vivono uomini con animo diverso da quelli di città. Si chiamano contadini. Hanno mani più rudi e callose e panni più sporchi degli uomini delle fessure, sebbene abbiano assai più da mangiare di quelli. Ma loro non ci credono e invidiano quelli che chiamano fannulloni, perché non devono toccare la terra e metterci la semente e trarre i frutti. Vivono in ostilità con quelli, perché devono dare loro il nutrimento che viene dalla terra, devono cogliere i frutti che poi l’uomo delle fessure di pietra consuma, devono custodire e allevare il bestiame fino a che è ben grasso e anche di questo devono poi cedere loro la metà. In ogni modo devono faticare molto e procurare il cibo per tutti gli uomini delle città, e non vedono bene la ragione per cui costoro debbano avere panni più belli e mani più bianche e non siano anch’essi a sudare sotto il sole e a gelare sotto la pioggia.

 Ma l’uomo che vive nelle fessure di pietra di questo non si preoccupa molto. E’ convinto di aver maggiori diritti dell’uomo della campagna e che le sue opere abbiano maggior valore che non il deporre o estrarre frutti dalla terra. Questa inimicizia fra le due parti non è però tale che fra loro vi sia guerra. In generale il Papalagi, sia che viva in città fra le fessure, sia che stia in campagna, trova che tutto va bene così com’è.

L’uomo della terra ammira il regno degli uomini delle città di pietra quando ci viene, e l’uomo delle fessure di pietra canta grandi arie e gorgoglia quando passa nei villaggi dell’uomo della terra. L’uomo delle fessure lascia che l’uomo della terra ingrassi innaturalmente i maiali e questi lascia che l’uomo delle fessure di pietra costruisca i suoi cassoni di pietra.

 Ma noi, che siamo liberi figli del sole e della luce, vogliamo restare fedeli al Grande Spirito e non vogliamo appesantirgli il cuore con le pietre. Solo creature smarrite, malate, che non stringono più la mano di Dio, possono vivere felici fra fessure di pietra senza sole, né luce, né vento. Concediamo al Papalagi a sua dubbia felicità, ma spezziamo in lui ogni tentativo di costruire anche nelle nostre soleggiate contrade i suoi cassoni e di uccidere la gioia di vivere con pietre, fessure, sporcizia, rumore, fumo e sabbia, come è suo intendimento.

Del tondo metallo e della carta pesante

RAGIONEVOLI fratelli, ascoltate con fiducia e siate felici di non conoscere il male dei bianchi e le loro angustie. Voi tutti mi siete testimoni che il missionario dice: "Dio è amore. Un onesto cristiano farebbe bene a tenersi sempre davanti agli occhi l’immagine dell’amore. Solo al grande Dio va quindi anche la devozione del bianco". Ebbene, il missionario ci ha mentito, ci ha ingannati, il Papalagi lo ha corrotto affinché ci ingannasse con le parole del Grande Spirito. Perché il tondo metallo e la carta pesante, ch’egli chiama denaro, questa è la vera divinità dei bianchi.

Quando un europeo parla dell’amor di Dio, torce la faccia e sorride. Sorride dell’ingenuità del tuo pensiero. Tendigli però un tondo pezzo di metallo o una grande carta pesante e, allora subito i suoi occhi si illuminano e molta saliva gli giunge alle labbra. Il denaro è il suo amore, il denaro è il suo Dio. Tutti i bianchi pensano a esso, anche quando dormano. Ce ne sono molti i cui occhi si sono fatti ciechi a furia di contare il denaro. Molti che per denaro hanno dato la gioia, il riso, l’onore, la coscienza, la felicità, sì, persino la donna e il figlio. Quasi tutti perdono la salute per il tondo metallo e la carta pesante. Se lo portano addosso nei loro panni, fra dure pelli ben ripiegate. Di notte lo depongono sotto il guanciale, perché nessuno glielo porti via. Ci pensano ogni giorno, ogni ora, ci pensano ogni minuto. Tutti! Anche i bambini! Devono, sono costretti a pensarci. La madre lo insegna loro e lo vedono fare dal padre. Tutti gli europei. Quando passi nelle fessure di pietra della Germania a ogni momento odi il grido: "Marco!" E di nuovo: "Marco!" Lo senti dappertutto. Quello è il nome ch’essi danno al tondo metallo e alla carta pesante. In Francia si chiama franco, in Inghilterra scellino, in Italia lira. Marco, franco, scellino, lira sono sempre la stessa cosa. Tutti vogliono dire denaro e sempre denaro. Il denaro soltanto è il vero dio del Papalagi, ciò che egli venera di più.

D’altra parte nelle terre dei bianchi non ti è neppure possibile restare dal levarsi al cadere del sole senza denaro, del tutto senza denaro. Non riusciresti a placare la tua fame e la tua sete, non troveresti una stuoia per la notte. Ti chiuderebbero in una prigione e metterebbero il tuo nome sui giornali perché sei senza denaro. Devi pagare, cioè dare denaro, per il terreno su cui cammini, per la terra su cui sorge la tua capanna, per la stuoia su cui dormi la notte, per la luce che illumina la tua capanna. Pagare per poter tirare a un piccione, per poter bagnare il tuo corpo nel fiume. Se vuoi andare là dove la gente di diverte, dove si canta o si balla, oppure vuoi chiedere consiglio a un fratello, per ogni cosa devi dare molto metallo rotondo e carta pesante. Devi pagare per ogni cosa.

Ovunque, trovi un tuo fratello che allunga la mano e ti disprezza oppure si infuria se non ci deponi del denaro. E il tuo umile sorriso e lo sguardo più affettuoso non ti sono d’aiuto per addolcire il suo cuore. Lui spalancherà le fauci e ti griderà dietro: "Miserabile! Vagabondo! Perdigiorno!" Tutte queste parole hanno lo stesso significato e rappresentano la più grande vergogna che possa ricadere su una persona. Sicuro, persino la tua nascita devi pagare, e quando muori la tua famiglia deve pagare per te, perché sei morto e perché il tuo corpo possa trovare posto sottoterra, come pure per la grande pietra che faranno rotolare sulla tua tomba a eterno ricordo.

Ho trovato una sola cosa per la quale in Europa non viene ancora richiesto denaro e che ciascuno può usare nella quantità che vuole: l’aria da respirare. Credo però che si tratti solo di una dimenticanza, e non esito ad affermare che se in Europa qualcuno udisse queste mie parole, subito penserebbe a far incassare metallo rotondo e carta pesante anche per questo. Poiché tutti gli europei sono continuamente alla ricerca di nuovi motivi per pretendere denaro.

Senza denaro in Europa sei un uomo senza testa, un uomo senza membra. Un niente. Devi dare denaro. Ne hai bisogno per il cibo, per l’acqua da bere, per il sonno. Quanto più denaro possiedi, tanto migliore è la tua vita. Se hai il denaro puoi avere in cambio tutto il tabacco che vuoi, gli anelli o i panni più belli. Hai molto denaro? Puoi avere molto. Perciò tutti ne vogliono avere molto. E ciascuno vuole averne di più degli altri. Da qui l’avidità e l’occhio teso al denaro in ogni ora del giorno. Getta un tondo metallo nella sabbia e i bambini vi si lanceranno sopra, lotteranno fra di loro per prenderlo e chi lo afferra e lo tiene, il vincitore, è felice. Ma raramente qualcuno getta denaro nella sabbia.

Da dove viene il denaro? Come puoi arrivare ad avere tanto denaro? Oh, in molte e diverse maniere, facili e difficili. Quando tagli i capelli a un tuo fratello, quando gli strappi le erbacce davanti alla capanna, quando conduci una canoa sull’acqua, quando hai un pensiero importante, Sì, per amore di giustizia va detto: anche se tutto richiede molta carta pesante e metallo rotondo, è anche facile ottenerne per tutto ciò che fai. Basta che tu ti dia da fare, cosa che in Europa si chiama lavorare. "Lavora e avrai denaro", dice una delle regole degli europei.

In ciò regna però una grande ingiustizia, sulla quale il Papalagi non riflette, non vuole riflettere, perché in tal caso dovrebbe ammettere la sua stessa ingiustizia. Non tutti coloro che hanno molto denaro lavorano molto. (sicuro, tutti vorrebbero avere molto denaro senza però lavorare). E questo succede così: quando un bianco guadagna tanto denaro da avere la sua capanna, il suo cibo e la sua stuoia, e oltre a questo anche molte altre cose, subito per il denaro che ha in più fa lavorare il fratello. Per sé. Gli dà per prima cosa il lavoro che ha reso dure e sporche le sue mani. Gli fa portare via gli escrementi che lui stesso ha deposto. Se si tratta di una donna, allora si prende una fanciulla che lavori per lei. E costei deve ripulire le stuoie sporche, lavare le ciotole, pulire le pelli da piedi, accomodare i panni strappati e non deve far nulla che non serva a lei. In questo modo lui o lei hanno tempo per fare altri lavori più lieti, più importanti e più gravi, per i quali viene pagato più denaro, un lavoro che lascia le mani più pulite e i muscoli più contenti. Se è un costruttore di barche, l’altro deve aiutarlo a costruire le barche. Del denaro che costui guadagna dandogli il suo aiuto, e che quindi dovrebbe appartenere a lui solo, l’altro gliene prende una parte, e cioè la parte più grossa, e non appena gli è possibile prende a lavorare per sé due fratelli, e poi tre, e sempre in maggior numero devono lavorare per lui a costruire imbarcazioni, e alla fine sono cento e anche più. Fino a quando lui non ha più niente altro da fare che stendersi sulla sua stuoia, bere kava (bevanda narcotica estratta dalla radice della omonima pianta, n.d.r.) europea e bruciare rotoli di tabacco, poi consegnare le baracche finite e farsi portare il metallo o la carta che gli altri hanno guadagnato lavorando per lui. Poi la gente dice: "E’ ricco". Lo invidiano e lo lusingano in molte maniere e gli dicono parole sonanti. Poiché il valore di un uomo nel mondo del bianco non è la sua nobiltà o il suo coraggio e lo splendore del suo pensiero, ma la quantità di denaro, quanto ne può fare in un giorno, quanto ne conserva nella sua grossa cassa di ferro, così pesante che nemmeno un terremoto la può distruggere.

Ci sono molti bianchi che ammucchiano il denaro che altri hanno fatto per loro, lo portano in un luogo ben custodito, ne portano lì sempre di più fino a che non hanno più neppure bisogno di gente che lavori per loro, perché a questo punto è il denaro che lavoro per loro. Come ciò sia possibile senza qualche diabolica magia, non sono mai riuscito a saperlo del tutto: ma è vero che il denaro diventa sempre di più, come le foglie di un albero, e che in questi casi l’uomo diventa ricco anche quando dorme.

Ora, quando uno ha molto denaro, molto più della maggior parte degli altri uomini, così tanto che potrebbe con esso rendere il lavoro più facile a cento, mille uomini, lui non dà loro nulla; mette le mani sopra il metallo rotondo e siede sopra la carta pesante e c’è avidità e voluttà nei suoi occhi. E se gli chiedi: "Che cosa vuoi fare con tutto quel denaro? Qui sulla terra non puoi fare molto più che rivestirti, placare la tua fame e la tua sete", allora non sa che cosa rispondere, oppure dice: "Vogliamo averne ancora di più. Sempre di più. E ancora di più". E, così, ben presto ti avvedi che il denaro lo ha fatto ammalare e che tutti i suoi sensi sono posseduti dal denaro.

E’ malato e invasato perché ha dato la sua anima al metallo rotondo e alla carta pesante, e non ne ha mai abbastanza e non può smettere di desiderarne sempre di più. Non è più capace di pensare: "Voglio andarmene dal mondo senza molestie e senza ingiustizie, così come ci sono venuto, poiché il Grande Spirito mi ha inviato nel mondo anche senza metallo rotondo e senza carta pesante". Assai pochi pensano a questo. Per lo più restano nella loro malattia, non guariscono mai nel loro cuore e godono del potere che dà il molto denaro. Si gonfiano d’orgoglio come frutti marci sotto le piogge tropicali. Con voluttà lasciano che molti dei loro fratelli facciano i lavori più duri, per poter essi stessi ingrassare nella pigrizia e prosperare. E fanno questo senza che la loro coscienza si ammali. Si vantano delle loro belle dita pallide che ora non si sporcano più. Il pensiero di derubare continuamente gli altri delle loro energie e di usarle per se stessi non li disturba e non toglie loro il sonno. Non pensano affatto di dare gli altri una parte del tanto denaro che hanno, per rendere loro più facile il lavoro e più lieve la fatica.

Così in Europa c’è una metà che deve fare molto lavoro sporco, mentre l’altra metà lavora poco o niente del tutto. La prima metà non ha mai tempo per starsene al sole, la seconda ne ha molto. Il Papalagi dice: "Non tutti gli uomini possono avere ugualmente tanto denaro e mettersi tutti contemporaneamente seduti al sole". Secondo questa dottrina egli si prende il diritto di essere crudele, per amore del denaro. Il suo cuore è duro e il suo freddo, sì, egli mente, inganna, è sempre disonesto e pericoloso quando la sua mano si tende verso il denaro. Spesso un Papalgi ne uccide un altro per denaro. Oppure lo uccide con il veleno delle parole, lo stordisce con esse per rapinarlo. Perciò di rado uno si fida di un altro, perché tutti sono consapevoli della loro grande debolezza. Per questo tu non sai mai se un uomo che ha molto denaro è buono nel fondo del suo cuore, perché potrebbe anche essere molto cattivo. Noi non sappiamo mai come e dove ha perso i suoi tesori.

In compenso però anche l’uomo ricco non sa se l’onore che gli viene fatto si riferisce alla sua persona o al suo denaro. Il più delle volte è rivolto al suo denaro. Perciò io non comprendo perché si vergognano tanto coloro che non hanno molto metallo rotondo e carta pesante e invidiano il ricco, invece di essere loro a farsi invidiare. Perché come non è bene cingersi di troppo pesanti collane di conchiglie, così è per il greve peso del denaro. Esso toglie all’uomo il respiro e alle membra la giusta libertà.

Ma non un solo Papalagi vuol rinunciare al suo denaro. Non uno. Chi non ama il denaro viene deriso, è stupido. «La ricchezza» (cioè l'aver molto denaro) «rende felici», dice il Papalagi. E ancora: «Il Paese che ha più denaro è più felice». Noi tutti, voi, illuminati fratelli, siamo poveri. La nostra terra è la più povera sotto il sole. Noi non abbiamo tanto metallo rotondo e carta pesante da riempirne una cassa. Agli occhi del Papalagi siamo poveri mendicanti. Eppure! Quando vedo i vostri occhi e li confronto con quelli del ricco signore, trovo che i suoi occhi sono opachi e spenti e stanchi, mentre i vostri brillano della grande luce, brillano di gioia, forza, vitalità e salute.
I vostri occhi li ho trovati solo nei bambini dei Papalagi, prima che imparino a parlare, perchè fino a quel momento non sanno ancora nulla del denaro. Quanto siamo stati privilegiati dal Grande Spirito, che ci ha protetti contro il demonio ! Il denaro è un demonio, perchè tutto ciò che fa è male e fa male. Chi soltanto tocca il denaro, rimane prigioniero del suo incanto, e chi lo ama deve fargli dono di tutte le sue energie e di tutte le sue gioie, fintanto che vive. Amiamo dunque i nostri nobili costumi, che dispregiano l'uomo che chiede una mercede per ogni ospitalità che dà, per ogni frutto che porge. Amiamo i nostri costumi che non sopportano che uno abbia tanto più di un altro o che abbia molto e l'altro nulla di nulla. Affinchè nel nostro cuore non diventiamo come il Papalagi, che sa essere lieto e felice anche se il fratello che gli sta accanto è triste ed infelice.
Guardiamoci soprattutto dal denaro. Il Papalagi porge ora anche a noi il suo metallo rotondo e la sua carta pesante, per renderci avidi di essi. Essi dovrebbero farci più ricchi e più felici. Già molti di noi ne sono stati accecati e sono caduti in quella grave malattia. Ma se voi credete alle parole del vostro umile fratello, se sapete che vi dico la verità quando affermo che il denaro non rende né più lieti, né più felici, ma piuttosto mette il cuore e tutto l'uomo in grande confusione, che con il denaro non si può mai veramente venire in aiuto di una persona, renderla più lieta e più felice, allora anche voi comincerete a odiare il tondo metallo e la carta pesante come i peggiori dei vostri nemici.

Le molte cose fanno povero il Papalagi

E anche in questo riconoscerete il Papalagi, perchè tenta di convincerci che noi siamo poveri e miserevoli e abbiamo bisogno di molto aiuto e compassione perchè non possediamo le cose.
Lasciate che vi dica, miei cari fratelli delle molte isole, che cos'è una cosa. La noce di cocco è una cosa, il panno, la conchiglia, lo scacciamosche, l'anello che porti al dito, la ciotola in cui mangi, gli ornamenti che porti in capo. Tutte queste sono cose. Ma ci sono due generi diversi di cose. Ci sono le cose fatte dal Grande Spirito, senza che noi lo vediamo, e che a noi uomini non costano né denaro, né fatica alcuna, come la noce di cocco, appunto, la conchiglia, la banana; e ci sono cose fatte dagli uomini, che costano lavoro e fatica, come gli anelli, la ciotola o lo scacciamosche. Il signore intende quindi le cose che egli può fare con le sue stesse mani, le cose dell'uomo, e sono queste che ci mancano; poichè non può certo riferirsi alle cose del Grande Spirito. Gettate intorno lo sguardo, fino all'orizzonte, dove l'estremità della terra sostiene l'immensa volta azzurra. Tutto è pieno di grandi cose: la foresta con le sue colombe selvatiche, i colibrì e i pappagalli; la laguna con i suoi frutti, le conchiglie, le aragoste e gli altri animali d'acqua; la spiaggia con il suo volto chiaro e la morbida pelliccia della sua sabbia; la grande acqua, che può mostrarsi irata come un guerriero o sorridere dolcemente come una vergine del villaggio; la grande volta azzurra, che si trasforma ad ogni ora del giorno e porta grandi fiori che ci danno luce d'oro e d'argento. Perchè dovremmo essere tanto stolti da aggiungere a queste altre cose, da mettere cose dell'uomo accanto a quelle sublimi del grande spirito ? Non potremmo mai comunque uguagliarlo, poichè il nostro spirito è troppo piccolo e debole di fronte alla potenza del Grande Spirito; e anche la nostra mano è troppo debole in confronto alla sua, grande e possente. Tutto ciò che possiamo fare è soltanto poca cosa e non vale la pena di parlarne. Possamo rendere più lungo il nostro braccio per mezzo di una clava, possiamo allargare la nostra manoper mezzo di una ciotola di legno, ma non c'è stato un samoano e neppure un Papalagi che abbia fatto una palma o una radice di kava.

Naturalmente il Papalagi crede di poter fare queste cose, crede di essere forte come il Grande Spirito. E mille e mille mani non fanno altro che preparare cose, dal levarsi al cadere del sole. Cose dell'uomo, di cui non conosciamo lo scopo, di cui non vediamo la bellezza. E il Papalagi pensa sempre nuove cose, continuamente. Le sue mani tremano di febbre, il suo volto diventa grigio come la cenere e la schiena gli s'incurva; ma lui brilla di gioia quando riesce a costruire una cosa nuova. E subito tutti vogliono avere la cosa nuova, e la ammirano, si mettono davanti ad essa e la cantano nella loro lingua.
O miei fratelli, se voi volete credermi: io sono riuscito a entrare nel pensiero del Papalagi e ho visto la sua volontà come se egli fosse illuminato dal sole di mezzogiorno. Poichè là dove egli arriva, distrugge le cose del Grande Spirito, e vuole poi riportare in vita con il proprio potere ciò che uccide, e con ciò far credere a se stesso di essere lui il Grande Spirito perchè sa fare tante cose.

Fratelli, pensate se fra un'ora venisse la grande tempesta e sradicasse la foresta e portasse via le montagne con tutti gli alberi e tutte le foglie e trascinasse via con sè tutte le conchiglie e gli animali della laguna e non ci fosse più neppure un fiore di ibisco con cui le nostre fanciulle potessero adornarsi i capelli. Se tutto, tutto ciò che vediamo scomparisse e non restasse altro che sabbia, e la terra somigliasse a una nuda mano tesa o a una collina su cui è scivolata la lava incandescente, come piangeremmo sulle palme, sulle conchiglie, sulla foresta, su tutto. Là dove si trovano le molte capanne del Papalagi, nei luoghi ch'egli chiama città, là però la terra è nuda come una mano tesa, e per questo il Papalagi si smarrisce nella follia e gioca a fare il Grande Spirito: per dimenticare ciò che non possiede. Poichè egli è così povero e la sua terra così triste, afferra le cose, le raccoglie come il pazzo raccoglie le foglie secche e con esse riempie la sua capanna. Per questo però ci invidia e vorrebbe che noi diventassimo poveri come lui.

Grande povertà è quando l'uomo ha bisogno di tante cose: perchè così egli dimostra di essere povero di cose del Grande Spirito. Il Papalagi è povero perchè desidera tanto ardentemente le cose. Non può vivere senza di esse. Quando con il dorso di una tartaruga si costruisce un arnese per lisciarsi i capelli, quando vi ha messo dell'olio, fa ancora una pelle per l'utensile, una piccola cassa per la pelle e una cassa più grande per quella più piccola. Mette tutto in pelli e il casse. Ci sono casse per panni inferiri e superiori, per panni da lavare, panni da bocca e altri panni, casse per le pelli da mani e per le pelli da piedi, per il metallo rotondo e per la carta pesante, per le provviste di cibo e per il libro sacro, per tutto e per ogni cosa. Di tutte le cose ne fa tante, quando una sola basterebbe. Vai in una cucina europea e vedi moltissime ciotole per il cibo e altri strumenti per cucinare che non vengono mai usati. E per ogni cibo c'è una diversa ciotola: una per l'acqua diversa da quella per la kava europea, una per la noce di cocco diversa da quell per la colomba.
Una capanna europea ha tante cose, che se anche tutti gli uomini di un villaggio delle Samoa se ne caricassero completamente le mani e le braccia non basterebbero a portarle tutte. In una sola capanna ci sono un tal numero di cose, che tanti capi bianchi hanno bisogno di molti uomini e donne che non facciamo altro che mettere tutte queste cose al loro posto e ripulirle della sabbia. E persino la più nobile vergine consuma molto del suo tempo a contare le molte cose, a sistemarle e a pulirle.
Fratelli voi sapete che io non mento e vi dico tutto come io in verità ho veduto, senza nulla togliere o aggiungere. Così, credetemi, in Europa ci sono persone che si puntano la canna da fuoco alla fronte e si uccidono perchè preferiscono morire piuttosto che vivere senza cose. Poichè il Papalagi inebria in mille maniere il suo spirito e così si convince di non poter vivere senza le cose, come nesun uomo può vivere senza cibo.

Per questo non ho mai trovato in Europa una capanna dove potessi stendermi bene sulla mia stuoia senza che qualche cosa urtasse le mie membra quando mi allungavo. Tutte le cose mandavano lampi o gridavano forte con la bocca del loro colore, così che non potevo chiudere gli occhi. Mai riuscii a trovare un giusto riposo e mai provai maggior nostalgia per la mia capanna delle Samoa, nella quale non ci sono cose, se non la mia stuoia e il rotolo per poggiare la testa, e dove nulla rivva all'infuori del dolce aliseo che viene dal mare.

Chi possiede poche cose si considera povero e ne soffre. Non c'è Papalagi che canti e abbia uno sguardo lieto quando non ha nulla all'infuori della sua stuoia e della sua ciotola, come accade a ciascuno di noi. Gli uomini e le donne del mondo bianco piangerebbero di malinconia nelle nostre capanne, si affretterebbero a correre nella foresta per prendere legno e cercare il guscio della tartaruga, vetro, filo di ferro o pietre colorate o molte altre cose ancora, e continuarebbero da mattina a sera a tenere in moto le loromani, fino a quando la loro casa delle Samoa si fosse riempita di cose grandi e piccole. Tutte cose che facilmente si rompono, che ogno piccolo fuoco e ogni pioggia tropicale possono distruggere e spazzar via, e che devono perciò continuamente essere rifatte.

Quanto più un uomo è un vero europeo, tanto maggiore è il numero delle cose di cui ha bisogno. Per questo le mani del Papalagi non stanno mai ferme, non riposano mai: per il gran fare le cose. Per questo i volti dei bianchi sono spesso così stanchi e tristi, e per questo pochissimi fra loro arrivano a vedere le cose del Grande Spirito, a giocare sulla piazza del villaggio, a dire e cantare liete canzoni o, nei giorni di sole, a danzare nella luce e a rallegrarsi come a noi tutti è dato di fare. Loro devono fare cose. devono custodire le loro cose. Le cose stanno loro addosso e strisciano loro intorno come le formichine della sabbia. Compiono con gelido cuore qualsiasi delitto, per ottenere le cose. Si fanno la guerra fra di loro, non per l'onore dell'individuo, o per misurare le loro vere forze, ma solo per amore delle cose.

Tuttavia, tutti loro sanno la grande povertà della loro vita, altrimenti non ci sarebbero tanti Papalagi che godono grande onore perchè passano tutta la loro vita a intingere ciuffi di peli in succhi di ogni colore, e con essi gettano belle immagini su bianche stuoie. Scrivono così tutte le belle cose di Dio, tanto variopinte e liete quanto loro riesce di fare. Con la terra molle danno forma a creature senza panni, fanciulle con i bei movimenti liberi di una vergine del villaggio Matautu, oppure a figure maschili che levano la clava, che tendono l'arco e spiano nella foresta la colomba selvatica. Creature di argilla alle quali il Papalagi costruisce intorno capanne a festa, dove la gente arriva da lontano per contemplarle e godere della loro bellezza e santità. Stanno davanti a esse avvolti fittamente nei loro molti panni e rabbrividiscono. Io ho visto il Papalagi piangere di gioia davanti a tanta bellezza, che lui stesso ha perduto.

Ora gli uomini bianchi vorrebbero portare a noi i loro tesori, perchè anche noi diventiamo ricchi delle loro cose. Ma queste cose non sono che frecce avvelenate, di cui si muore quando colpiscono il petto. «Dobbiamo creare loro dei bisogni», ho udito dire da un uomo bianco che conosce bene la nostra terra; e bisogni vuol dire cose. «Allora diventeranno desiderosi di lavorare», diceva ancora quell'uomo sapiente. E intendeva dire che dovremmo impiegare anche noi la forza delle nostre mani per fare le cose. Cose per noi, ma in primo luogo per il Papalagi. Anche noi dobbiamo essere stanchi e grigi e curvi.

Fratelli delle molte isole, dobbiamo vegliare e stare all'erta, perchè le parole del Papalagi sembrano dolci banane, ma sono piene di lance segrete che vogliono uccidere in noi la luce e la gioia. Non dimentichiamo mai che a noi occorre ben poco, all'infuori delle cose del Grande Spirito. Egli ci ha dato gli occhi per vedere le sue cose. E ci vuole più di una vta per vederle tutte. E non c'è mai stata menzogna più grande sulle labbra dell'uomo bianco di questa: che le cose del Grande Spirito non sono di utilità mentre le sue sarebbero molto più utili. Le sue cose sono così grandi in numero, che brillano e scintillano, e cercano in mille modi di conquistarci; non hanno però mai fatto un papalagi più bello nel corpo, nè i suoi occhi più brillanti o i suoi sensi più forti. Quindi anche le sue cose non servono a nulla, e dunque ciò che egli dice e vuol spingerci a fare appartiene al cattivo spirito e il suo pensiero è imbevuto di veleno.

Il Papalagi non ha tempo

Il Papalagi ama il metallo rotondo e la carta pesante, ama mettersi nella pancia molto liquido tratto da frutti uccisi e molta carne di maiale e bue e di altri terribili animali, ma sopra ogni cosa ama ciò che non si può afferrare e che pure è sempre presente: il tempo. E di questo fa grande scalpore e sciocche chiacchiere. Sebbene non ce ne sia mai più di quanto ne può stare tra il levarsi e il cadere del sole, lui non ne ha mai abbastanza.

Il Papalagi è sempre scontento del suo tempo e si lamenta con il grande spirito perchè non gliene ha dato abbastanza. Sì, arriva a bestemmiare Dio e la sua grande saggezza, dal momento che taglia e ritaglia e divide e suddivide ogni nuovo giorno secondo un preciso sistema. Lo taglia proprio come si squarcia con il coltello una molle noce di cocco. E tutte le parti che taglia hanno un nome: secondi, minuti, ore. Il secondo è più piccolo del minuto, questo è più piccolo dell'ora; tutti insieme fanno le ore e bisogna avere sessanta minuti e molti più secondi prima di avere un'ora.

Questa è una faccenda molto complicata, che non sono mai riuscito a comprendere bene, perchè mi fa stare male rimanere più a lungo del necessario a riflettere su cose così infantili. Ma il Papalagi fa di questo un grande sapere. Gli uomini, le donne e persino i bambini piccoli, che appena si reggono sulle gambe, portano nei loro panni una piccola macchina rotonda appesa a una grossa catena che pende dal collo o è legata a un polso con una striscia di pelle, e in essa sanno leggere il tempo. Questa lettura non è affatto facile. La si insegna ai bambini, tenendo loro la macchina vicino all'orecchio perchè si divertano.

Questa macchina, che si può facilmente portare su due dita tese, ha all'interno l'aspetto di una di quelle macchine che stanno nella pancia delle grandi navi, che voi tutti conoscete. Ci sono però anche macchine del tempo grandi e pesanti, che stanno ritte in piedi all'interno di una capanna o sono appese sulla punta più alta della casa e si possono vedere da lontano.

Quando è trascorsa una parte del tempo, piccole dita poste sulla parte esterna della macchina lo mostrano, e nello stesso momento la macchina si mette a gridare, come se uno spirito battesse con forza il ferro del suo cuore. Sicuro, in una città europea c'è sempre un gran fragore quando è passata una certa parte del tempo.

Quando risuona questo baccano, il Papalagi si lamenta: «E' un gran guaio che sia già passata un'ora». Di solito, dicendolo fa una faccia triste, come qualcuno che prova un gran dolore, sebbene dopo quella passata subito arrivi fresca fresca un'altra ora.

Non ho mai capito bene questa cosa e penso appunto che si tratti di una grave malattia. «Il tempo mi sfugge !» «Il tempo corre come un puledro impazzito !» «Dammi un po' di tempo !» quelli sono i lamenti più abituali che si sentono dall'uomo bianco.

Io dico che deve essere una strana sorta di malattia; perchè anche supponendo che l'uomo bianco abbia voglia di fare una cosa, che il suo cuore lo desideri veramente, per esempio che voglia andare al sole o sul fiume con una canoa o voglia amare ala sua fanciulla, così si rovina ogni gioia, tormentandosi con il pensiero: «non ho tempo di essere contento». Il tempo è il ma, con tutta la buona volontà lui non lo vede. Nomina mille cose che gli portano via il tempo, se ne sta immusonito e lamentoso al suo lavoro che non ha alcuna voglia di fare, che non gli dà gioia e al quale nessuno lo costringe se non se stesso. Ma se poi all'improvviso si avvede di avere tempo, che il tempo è lì, oppure qualcuno gli dà dell'altro tempo (il Papalagi si danno sempre il tempo a vicenda, sicuro, niente è più altamente considerato di questo), allora gli manca di nuovo la voglia oppure è stanco del suo lavoro e senza gioia. E regolarmente vuole fare l'indomani ciò per cui oggi non ha più tempo.

Ci sono Papalagi che affermano di non avere mai tempo. Corrono intorno come dei disperati, come dei posseduti dal demonio e ovunque arrivino fanno del male e combinano guai e creano spavento perchè hanno perduto il loro tempo. Questa follia è uno stato terribile, una malattia che nessun uomo della medicina sa guarire, che contagia molta gente e porta alla rovina.

Poichè ogni Papalagi è ossesionato dalla paura diperdere il suo tempo, sa anche molto bene (e non solo lo sa ogni uomo, ma anche ogni donna e ogni bambino piccolo) quanti soli e quante lune si sono levate e sono tramontate dal momento in cui egli ha visto la grande luce per la prima volta. Sicuro, questa è una cosa importante e quindi allo scadere di determinati periodi di tempo, si fanno grandi sacrifici con fiori e grandi banchetti. Quanto spesso mi sono accorto che molti credevano di doversi vergognare per me quando mi domandavano quanti anni avevo e io ridevo e non sapevo rispondere. «ma devi pur sapere quanti anni hai.» Io tacevo e pensavo: «E' molto meglio che io non lo sappia».

Che età si ha, quante lune si sono viste. questi calcoli e queste ricerche sono colme di pericolo, perchè con ciò si capisce quante lune dura una vita della maggior parte degli uomini. E così ciascuno di loro sta attentissimo, e quante molte e molte lune sono trascorse, dice «dovrò presto morire». Così non ha più gioia e finisce che muore davvero.

Ci sono in Europa soltanto poche persone che hanno veramente tempo. Forse nessuna. Per questo, quindi, la maggior parte di esse corrono per la vita come una pietra che rotola. Tutti o quasi camminano tenendo gli occhi abbassati e dondolando le braccia avanti e indietro per andare più in fretta. Quando si vuole fermarli gridano arrabbiati: «Perchè mi disturbi ? Non ho tempo, vedi piuttosto di usare bene il tuo». Fanno proprio come se un uomo che cammina in fretta avesse più valore e fosse più coraggioso di quello che cammina letamente.

Ho visto un uomo farsi scoppiare la testa, roteare gli occhi e spalancare la bocca come un pesce che sta per morire, diventare rosso e verde e battere le mani e i piedi perchè il suo servo era arrivato un momento più tardi di quanto aveva promesso. quel minuto, lo spazio di un respiro, era per lui una perdita tanto grave che non si sarebbe mai potuta compensare. Il servo dovette abbandonare la sua capanna, il Papalagi lo scacciò e gli gridò: «Mi hai rubato abbastanza tempo. Un uomo che nn bada al tempo non è degno di averne»

Una sola e unica volta incontrai un uomo che aveva molto tempo, che non si lagnava mai di averne perduto; ma era povero e sudicio e abbandonato. La gente gli girava al largo e nessuno aveva rispetto di lui. Io non compresi questo modo di fare, perchè il suo passo era tranquillo e senza ansia e i suoi occhi avevano un quieto sorriso, silenzioso e gentile. Quando glielo domandai il suo volto si piegò in una smorfia e disse con tristezza: «Io non ho mai saputo far uso del mio temo, perciò sono un povero diavolo disprezzato da tutti» Quest'uomo aveva tempo, ma neppure lui era felice.

Il Papalagi impiega tutte le sue energie e consuma tutti i suoi pensieri per rendere più pieno il suo tempo. Utilizza l'acqua   e il fuoco, la tempesta, i lampi del cielo, tutto per tratenere il tempo. Si mette delle ruote di ferro sotto i piedi e dà ali alle sue parole, sempre per avere più tempo. e Perchè tutta questa gran fatica ? Che cosa ne fa alla fine il Papalagi del suo tempo ? Non sono mai riuscito a capirlo del tutto, sebbene lui faccia sempre tante parole e tanti gesti come se il Grande Spirito lo avesse invitato a un ricevimento.

Io credo che il tempo gli sfugga come una serpe sfugge da una mano bagnata, proprio perchè lui cerca di tenerlo così stretto. Non gli lascia modo di riprendersi. Gli sta appresso e gli dà letteralmente la caccia con le mani tese, non gli consente alcuna sosta perchè possa stenersi al sole. Il tempo deve essergli sempre accanto, deve dirgli e cantargli qualcosa. Ma il tempo è silenzioso e ama la pace e la calma e lo stare distesi su una stuoia. Il Papalagi non ha compreso il tempo, non lo riconosce per quello che è e perciò lo maltratta in quel modo con i suoi rozzi costumi.

O miei cari fratelli ! Noi non ci siamo mai lamentati del tempo, lo abbiamo sempre amato; quando veniva non gli siamo mai corsi appresso, non abbiamo mai voluto né costringerlo, né disfarlo. Per noi non è mai stato fonte di pena o di fastidio. Si faccia avanti quello fra noi che non ha tempo ! Ciascuno di noi ha tempo in quantità; ma noi però siamo anche contenti e soddisfatti di lui, non ce ne occorre più di quanto ce ne è dato e ne abbiamo sempre quanto basta. Sappiamo di arrivare sempre abbastanza in tempo alle nostre mete e sapiamo anche che il Grande Spirito c chiama secondo la sua volontà, anche se non abbiamo contato il numero delle nostre lune. Dobbiamo liberare il povero, smarrito Papalagi dalla sua follia, dobbiamo ridargli il suo tempo. Dobbiamo distruggere la sua piccola machina del tempo e annunciargli che dal levarsi al calare del sole c'è molto più tempo di quanto un uomo può aver bisogno.          

Il Grande Spirito è più forte della macchina 

Il Papalagi fa molte cose che noi non sappiamo fare, che non comprenderemo mai, che per la nostra mente non sono che pietre pesanti. Cose per le quali non proviamo grande desiderio, ma che possono mettere in grande stupore i più deboli fra noi e porli in falsa umiltà. Perciò osserviamo senza vergogna o timore le meravigluiose arti del Papalagi.

Il Papalagi ha il potere di tramutare ogni cosa in sue lance e in sue clave. Si prende il lampo, il fuoco e l'acqua e li sottomette alla sua volontà. Li rinchiude e dà loro ordini. E loro ubbidiscono. Queste forze sono i suoi più forti guerrieri. Egli conosce il grande segreto di rendere il lampo accecante ancor più rapidoe luminoso, il caldo fuoco ancor più caldo, l'acqua veloce ancor più veloce.

Il Papalagi pare davvero essere colui che ha bucato il cielo, il messaggero di Dio, poichè domina il cielo e la terra a suo piacimento. E' pesce e uccello e verme e cavallo nello stesso tempo. Passa sotto i più grandi fiumi d'acqua dolce. Scivola fra rocce e montagne. Si lega ruote di ferro sotto i piedi e corre più veloce del più veloce destriero. Si solleva nel cielo. Sa volare. l'ho visto muoversi sull'acqua come un gabbiano. Possiede una grande canoa con la quale può viaggiare sull'acqua e ha anche una canoa per viaggiare sotto il mare. E con un'altra canoa viaggia da nuvola a nuvola.

Cari fratelli, io rendo testimonianza delle verità con le mie parole e voi dovete credere al vostro servo, anche se le vostre menti conoscono dubbi su ciò che io vi annuncio. Poichè grandi e ammirevoli sono le cose del Papalagi e io temo che ci siano molti fra noi che potrebbero sentirsi deboli davanti a tanto potere. E da doove potrei cominciare se volessi raccontarvi tutto ciò che i miei occhi hanno visto con grande stupore ?

Voi tutti conoscete la grande canoa che il bianco chiama piroscafo. Non è forse come un grandissimo, possente pesce ?  come è possibile ch'esso navighi da isola a isola più velocemente di quanto il più forte dei nostri giovani rematori sa fare con una canoa ? Avete visto alla sua estremità la grande pinna della coda quando è in movimento ? Essa si muove e si piega esattamente come quella dei nostri pesci nella laguna. Questa grande pinna spinge avanti la grande canoa. E come questo sia possibile, è il grande segreto del Papalagi. Il segreto è nella pancia del gran pesce. Là sta la macchina che dà alla grande pinna la grande forza. Una forza che un uomo non potrebbe mai avere.

La macchina è l'arma più potente del Papalagi. Dategli il più robusto albero di ifi della giungla: la mano della macchina abbatte il tronco, come una madre spezza il frutto di taro per darlo ai suoi bambini. La machina è la più grande meraviglia d'Europa. La sua mano è forte e non si stanca mai. Se vuole taglia cento, mille tanoe in un giorno. L'ho vista tessere panni, così fini e delicati come quelli usciti dalle mani più delicate di una giovane vergine. Lavorava dalla mattina a notte fonda. Sputava un apnno, fino a che ne aveva fatto un mucchio alto quanto una collina. Miserevole e pietosa è la nostra forza in confronto alla forza possente della macchina.

Il Papalagi è un mago. Canti una canzone, e lui raccoglie il tuo canto e te lo ridà in qualunque momento lo vuoi sentire. Ti mette davanti una lastra di vetro e ci imprigiona la tua immagine. E te la rifà mille volte, tutte le volte che vuoi.

Ma ho visto magie ben più grandi di questa. Vi ho detto che il Papalagi afferra i lampi del cielo. Lui li afferra e la macchina li deve divorare e distruggere, e di notte li sputa di nuovo in mille stelle, stelline, lucciole e minuscole lune. per lui sarebbe cosa da nulla cospargere durante la notte le nostre isole di luce, così che possano essere chiare e luminose come di giorno. Spesso manda fuori di nuovo i lampi per suo uso e ordina loro la strada e dà loro notizie da portare a fratelli lontani. E i lampi gli ubbidiscono e portano con sè notizie. Il Papalagi ha rafforzato tutte le sue membra. Le sue mani arrivano oltre i mari e fino alle stelle e i suoi piedi superano il vento e le onde. Il suo orecchio ode ogni sussurro a Savaii e la sua voce ha ali come un uccello. Il suo occhio vede nella notte. vede anche dentro il suo corpo, come se la sua carne fosse trasparente come l'acqua, e vede ogni sporcizia sul fondo di quest'acqua.

Tutto ciò di cui sono stato testimone e che vi racconto è soltanto una piccola parte di quello che i miei occhi hanno potuto vedere con grande ammirazione. E, credetemi, l'ambizione del bianco di compiere sempre nuovi miracoli è grande, e a migliaia essi stanno alzati a pensare nella notte e studiano come possono riportare una nuova vittoria su Dio. Perchè questa è la verità: il Papalagi vorrebbe vincere Dio. Vorrebbe abbattere il Grande Spirito e prendere egli stesso le sue forze e i suoi poteri. Ma ancora Dio è più forte e più potente del più grande Papalagi e delle sue macchine e ancora è Lui che decide chi di noi e quando deve morire.

Ancora il sole, l'acqua e il fuoco servono in primo luogo Lui, Dio. E ancora nessun binco ha potuto decidere quando deve salire la luna o ha saputo dirigere i venti a sua volontà. Fintanto che ciò rimane così, quei miracoli sono poca cosa.

E debole è colui fra di noi, o fratelli, che si sottomette a questi miracoli dei Papalagi; che adora il bianco per i suoi miracoli e per le sue opere e si dichiara per questo povero ed indegno, perchè le sue mani e il suo spirito non sanno fare le stesse cose. Poichè per quanto tutte le meraviglie del Papalagi possano colmarci di stupore, osservate alla limpida luce del sole, esse significano poco più che l'intaglio di una clava e l'intreccio di una stuoia, e ogni suo fare assomiglia solo al gioco di un bambino nella sabbia. poichè non c'è nulla, che il bianco ha fatto, che possa anche solo lontanamente uguagliare i miracoli del Grande Spirito.

Splendide e possenti e ben decorate sono le capanne dei grandi signori, che essi chiamano palazzi; e ancor più belle le alte capanne che essi hanno eretto in onore di Dio, che spesso si levano più alte delle cime del monte tofua. tuttavia ciò è rozzo e grossolano e senza il caldo sangue della vita in confronto a un semplice arbusto d'ibisco con la sua fioritura color del fuoco; in confronto alla cima svettante di ogni palma o a una foresta dei nostri coralli, ebbra di forme e di colori. Mai finora il Papalagi ha intessuto un panno così fine come Dio tesse in ogni ragnatela, e mai una macchina ha lavotrato in modo così sottile e abile come la più piccola formichina della sabbia che vive nelle nostre capanne.

Il bianco vole sulle nuvole come un uccello, ve l'ho detto. ma i grandi gabbiani volano ancora più alti e più veloci dell'uomo e in tutte le tempeste, e le ali nascono dal loro corpo, mentre le ali del Papalagi sono soltanto un inganno e si possono spezzare facilmente e farlo cadere.

Così tutti i suoi miracoli hanno dunque una piccola, nascosta imperfezione; e non c'è macchina che non abbia bisogno di un custode e di qualcuno che l'aiuti a muoversi. e ciascuna porta dentro di sé la sua segreta maledizione. Poichè anche se la forte mano della macchinas fa tutto, essa consuma con il suo lavoro anche l'amore che si nasconde in ogni cosa che esce dalle nostre mani.

Che cosa varrebbe per me una canoa o una clava tagliata dalla macchina, un oggetto freddo e senza sangue che non sa parlare del suo lavoro, che non sa sorridere quando è finito e che non posso portare alla madre o al padre perchè se ne rallegrino ? Come posso amare la mia canoa come l'amo, se una macchina me la potesse rifare in ogni momento senza che io vi metta mano ? Questa è la grande maledizione della macchina: che il Papalagi non ama più nulla, perchè può sempre rifare subito ogni cosa. Per accogliere i suoi miracoli privi di amore, egli deve nutrirli del proprio cuore.

Il Grande Spirito vuole decidere esso stesso le forze del cielo e della terra e distribuirle secondo il suo giudizio. Questo non è mai concesso all'uomo.

Non impunemente il bianco tenta di fare di se stesso pesce e uccello, cavallo e veme. E il guadagno è molto più piccolo di quanto egli stesso osi confessarsi.

Quando io cavalco attraverso un villaggio, arrivo certo più in fretta; ma quando io vado a piedi, vedo di più, e gli amici mi chiamano nelle loro capanne. Arrivare veloci a una meta è di rado un vero vantaggio. Il Papalagi vuole sempre arrivare in fretta alla meta. La maggior parte delle sue macchine servono solo allo scopo di arrivare più in fretta. E' giunto alla meta e già un'altra lo chiama. e così il Papalagi passa nella vita senza un momento di riposo, dimentica sempre più la gioia di camminare e di vagabondare e la letizia del muoversi verso la meta che ci viene incontro, che non andiamo a cercare.

Perciò io vi dico: la macchina è un bel giocattolo dei grandi bambini bianchi e tutte le sue arti non ci devono spaventare. Il Papalagi non ha ancora costruito una macchina che lo preservi dalla morte. Non ha ancora fatto niente che sia più grande di ciò che Dio fa in ogni ora. Tutte le macchine e le altre sue arti e magie non hanno ancora prolungato la vita di un uomo, non lo hanno neppure reso più lieto e felice. teniamoci perciò alle meravigliose macchine e allle grandi arti di Dio e disprezziamo il bianco quando gioca a fare Dio.

Del mestiere del Papalagi e di come egli in esso si smarrisce

OGNI PAPALAGI ha un mestiere. E' molto difficile spiegare che cosa sia un mestiere. E' qualcosa che si dovrebbe avere voglia di fare, ma il più delle volte non se ne ha. Avere un mestiere vuol dire fare sempre, ogni giorno, la stessa cosa. Farla così spesso da poterla fare a occhi chiusi e senza alcuno sforzo. Se io con le mie mani non faccio altro che costruire capanne o intrecciare stuoie, costruire capanne o intrecciare stuoie diventa il mio mestiere.

Ci sono mestieri maschili e mestieri femminili. Lavare biancheria nella laguna o tirare a lucido le pelli dei piedi sono mestieri femminili, guidare una imbarcazione in mare e sparare agli uccelli nella foresta sono mestieri maschili. Nella maggior parte dei casi la donna rinuncia al suo mestiere quando si sposa. L'uomo, al contrario, comincia proprio a farlo con maggior lena.

Ogni signore dà sua figlia solo a un pretendente che abbia un buon mestieri. Un Papalagi senza mestiere non si può sposare. Ogni uomo bianco quindi può e deve avere un mestiere. Per questa ragione ogni Papalagi, molto prima che venga il momento di farsi tatuare, deve decidere quale lavoro vuole fare per tutta la vita. Questo lo chiamano: scegliere una professione. Si tratta di una cosa molto importante e la famiglia ne parla tanto come di ciò che vuol mangiare il giorno seguente. Se vuole iniziare il mestiere di intrecciatore di stuoie, allora il signore anziano porta il giovane signore da un uomo che non fa altro che intrecciare stuoie. Quest'uomo deve spiegare al giovane come si intreccia una stuoia. Deve insegnargli a farlo così bene da poterlo fare a occhi chiusi. Spesso per questo ci vuole molto tempo, ma non appena ha imparato il giovane lascia l'uomo, e allora si dice che ha imparato il mestiere.

Quando il Papalagi, più avanti nella vita, si avvede che preferirebbe costruire capanne invece che intrecciare stuoie, allora si dice che ha sbagliato mestiere, che in altre parole vuol dire: ha mancato il bersaglio. Questo è un grande dolore, perché è contro i buoni costumi mettersi a fare un altro mestiere; è contro l'onore del buon Papalagi dire: "Questo non lo so fare, non ne ho voglia", oppure: "Le mie mani non mi vogliono ubbidire".

Il Papalagi ha tanti mestieri quante sono le pietre della laguna. Di ogni cosa che si può fare, lui fa un mestiere. Se uno raccoglie le foglie avvizzite dell'albero del pane, questo è il suo mestiere. Se pulisce le stoviglie, anche questo è un mestiere. Mestiere è tutto ciò che deve essere fatto con le mano o con la testa. Mestieri sono anche avere dei pensieri nella testa o osservare le stelle. Non c'è nulla in effetti che un uomo possa fare, di cui il Papalagi non faccia un mestiere.

Quindi quando il bianco dice: "Io sono un impiegato, questo è il suo mestiere; vuol dire che lui non fa altro che scrivere una lettera dopo l'altra. Non arrotola la sua stuoia sulla trave, non va in cucina ad arrostirsi un frutto, non lava la sua ciotola.

Mangia pesce ma non va a pescare, mangia frutti ma non coglie un frutto dall'albero. Scrive una lettera dopo l'altra; l'impiegato è appunto il suo mestiere. Esattamente come ogni cosa in sé può essere un mestiere: deporre le stuoie sulla trave, arrostire frutti, pulire ciotole, pescare pesci o cogliere frutti. Solo il mestiere dà all'uomo il pieno diritto al suo fare.

Così succede che la maggior parte dei Papalagi sanno fare soltanto quello che è il loro mestiere, e il più grande capo, che ha molta saggezza in testa e molta forza nel braccio, non è capace di deporre la sua stuoia sulla trave o di pulire la sua ciotola. E così succede anche che colui che è capace di scrivere una lettera di molti colori deve per forza non essere capace di portare al largo nella laguna una canoa, o viceversa.

Avere un mestiere vuol dire: solo camminare, solo assaggiare, solo combattere; insomma: saper fare solo una cosa.

In questo saper-fare-solo-una-cosa vi sono una grande manchevolezza e un grande pericolo, poiché a ciascuno può capitare di trovarsi una volta fuori nella laguna e dover guidare una canoa. Il Grande Spirito ci ha dato le mani perché possiamo cogliere i frutti dagli alberi, per prendere dalla palude le radici del taro. Ce le ha date per proteggere il nostro corpo e difenderlo da tutti i nemici, e ce le ha certamente date per la nostra gioia nella danza e nel gioco e negli altri piaceri. Ma non ce le ha certamente date solo perché costruissimo capanne, o cogliessimo frutti, o strappassimo tuberi; esse devono essere al nostro servizio in ogni momento e in tutte le occasioni.

Questo però il Papalagi non lo comprende. Ma che il suo modo di fare è sbagliato, profondamente sbagliato e contro tutti i comandamenti del Grande Spirito, lo comprendiamo dal fatto che ci sono dei bianchi che non sanno più camminare; che mettono su pancia come un maiale, perché devono sempre star fermi a causa del loro mestiere; che non sanno più sollevare o gettare una lancia, perché le loro mani sanno tenere solo l'osso per scrivere, sedere all'ombra e non fare altro che scrivere lettere; che non sanno più guidare un puledro, perché devono contemplare le stelle o spremersi pensieri dalla testa.

Raramente un Papalagi adulto è ancora in grado di saltare e correre come un bambino. Cammina trascinando il corpo e si muove come se fosse sempre impedito. Maschera e rinnega questa debolezza dicendo che correre e saltare non sono cose adatte a un uomo della sua dignità: Ma questo è un motivo ipocrita, perché le sue ossa sono indurite e inabili e tutti i suoi muscoli hanno perso la loro gioia, perché il mestiere li ha condannati al sonno e alla morte. Anche il mestiere è un demone che distrugge la vita. Un demone che offre all'uomo belle menzogne, ma che gli succhia il sangue dal corpo. Inoltre il mestiere danneggia il Papalagi anche in un altro modo e si rivela demone anche per un altro aspetto.

E' una gioia costruire una capanna: abbattere gli alberi nella foresta e tagliarli per farne dei pali, poi infiggere i pali nel terreno, intrecciarvi sopra il tetto e alla fine, quando i pali e le travi e tutto quanto è ben legato con i fili di cocco, ricoprire ogni cosa con le foglie secche della canna da zucchero. Non occorre che vi dica quale grande gioia è quando un intero villaggio ha costruito la capanna del capo e persino le donne e i bambini prendono parte alla grande festa.

Ma che cosa direste se solo pochi uomini del villaggio potessero andare nella foresta per tagliare gli alberi per farne dei pali? E se questi pochi non potessero poi aiutare a piantare i pali, perché il loro mestiere è soltanto abbattere gli alberi?

E se quelli che hanno piantato i pali nel terreno non potessero aiutare a intrecciare il tetto, perché il loro mestiere è solo piantare i pali? E se quelli che intrecciano il tetto non potessero poi ricoprire di fogliame, perché il loro mestiere è soltanto intrecciare il tetto? In tal caso nessuno di tutti questi potrebbe dare una mano a raccogliere la ghiaia fine dalla spiaggia per fare il pavimento della capanna, perché questo lo potrebbero fare soltanto coloro che portano ghiaia per mestiere. E allora inaugurare la nuova capanna e a fare la grande festa dovrebbero essere soltanto quelli che ci devono abitare, non tutti coloro che l'hanno costruita.

Voi ridete e certamente direste: "Se di noi soltanto uno e non tutti insieme potessimo lavorare, e se non potessimo aiutare in ogni lavoro per il quale occorra la forza dell'uomo, allora la nostra gioia sarebbe solo metà, anzi, non sarebbe gioia affatto". E voi certamente chiamereste pazzo colui che pretende di avere da voi la vostra mano per un solo scopo, come se tutte le altre membra e i sensi del vostro corpo fossero paralizzati o morti.

Da qui viene quindi al Papalagi la sua grande infelicità. E' bello andare una volta al ruscello a prendere l'acqua, è bello anche farlo parecchie volte in un giorno; ma se uno dal levarsi al calare del sole non dovesse fare altro che prendere acqua al ruscello, e questo tutti i giorni e ogni giorno tutte le ore, fino a che le sue forze lo consentono, sempre e continuamente, alla fine costui verrebbe colto dall'ira e scaglierebbe il secchio lontano da sé, infuriato per le catene che legano il suo corpo. Poiché nulla è così pesante per l'uomo come fare continuamente la stessa cosa.

Ci sono però dei Papalgi che non raccolgono solo acqua giorno dopo giorno sempre alla stessa fonte (questo potrebbe ancora essere un grande piacere), no, vi sono anche quelli che solo alzano una mano o l'abbassano oppure la spingono contro un bastone, e questo in un luogo sporco, senza luce e senza sole; che non fanno nulla che sia prova di forza e dia qualche gioia, gente che dal pensiero del Papalagi è costretta a levare o abbassare la mano oppure batterla contro una pietra, perché con ciò si mette in moto o si regola una macchina che taglia anelli bianchi o insegna da petto o conchiglie da calzoni o qualche altra cosa. In Europa ci sono più uomini di quante palme ci siano nelle nostre isole i cui volti sono grigi come la cenere, perché non conoscono gioia alcuna nel loro lavoro, perché i l mestiere divora ogni piacere e dal loro lavoro non nasce alcun frutto, neppure una foglia di cui poter gioire.

E per questo negli uomini cova un odio cocente per il proprio mestiere. Tutti hanno nel cuore una qualche cosa, come un animale che è tenuto alla catena e si ribella e vuol liberarsi e non vi riesce. E tutti confrontano i loro mestieri gli uni con gli altri, e sono pieni di invidia e di malcontento, e si parla di mestieri più elevati e più bassi, sebbene tutti i mestieri siano soltanto un fare a metà: Perché l'uomo non è soltanto mano o piede o soltanto testa; tutto in lui è unito. Mano, piede, testa vogliono stare insieme. Quando tutte le membra e i sensi lavorano insieme, solo allora il cuore dell'uomo vive e le altre devono essere come morte. Questo porta l'uomo allo smarrimento, alla disperazione e alla malattia.

Il Papalagi vive nello smarrimento a causa del suo mestiere. Per la verità, non vuole saperlo e sicuramente, se mi sentisse raccontare tutto questo, vorrebbe dichiararmi pazzo, come colui che vuole essere giudice e che però non può giudicare, perché lui stesso non ha mai avuto un mestiere e neppure ha mai lavorato come un europeo.

Ma il Papalagi non ci ha portato mai la verità né la spiegazione del perché noi dovremmo lavorare più di quanto Dio può chiederci di fare per saziare la fame, avere un tetto sopra la testa e trovare gioia e piacere alla festa sulla piazza del villaggio. Piccolo può sembrare questo lavoro, e la nostra esistenza può apparire povera di mestieri. Ma colui che è uomo giusto e fratello delle molte isole fa con gioia il suo lavoro, mai con sofferenza. Piuttosto non lo fa. E questo è ciò che ci distingue dai bianchi. Il Papalagi sospira quando parla del suo lavoro, come se fosse oppresso da un peso. I giovani delle Samoa vanno cantando nel campo di taro; cantando le giovani donne lavano i panni nei ruscelli. Il Grande Spirito non vuole certamente che diventiamo grigi nel nostro mestiere e strisciamo come lumache nella laguna. Egli vuole che restiamo ben ritti e fieri in tutto il nostro fare, e sempre uomini con occhi lieti e membra sciolte.

Del luogo della falsa vita e delle molte carte

Molto, miei cari fratelli del grande mare, molto avrebbe da raccontarvi il vostro umile servo, per darvi un'idea della verità sull'Europa. Per far questo, il mio discorso dovrebbe essere come un ruscelletto di montagna che scorre dalla mattina alla sera, e ancora la verità non sarebbe completa, perchè la vita del papalagi è come il mare di cui non si può vedere con precisione l'inizio e la fine. Essa ha altrettante onde quanto la grande acqua, rugge e infuria, sorride e sogna.

Come un uomo non potrà mai svuotare il mare con il cavo della mano, così io non posso portare a voi il grande mare dell'Europa con il mio piccolo spirito.

Ma per questo non voglio tralasciare di riferirvi che, come il mare non può essere senz'acqua, così la vita dell'Europa non può esistere senza il luogo della falsa vita e senza le molte carte. Portate via queste due cose al Papalagi e allora lui sarà come un pesce che l'onda ha sbattuto sulla riva: non può far altro che sussultare con tutte le sue membra, ma non può più nuotare e muoversi come gli piace.

Il luogo della falsa vita. Non è facile descrivervi questo luogo, che il bianco chiama cinema, in modo che voi possiate comprenderlo e immaginarlo chiaramente con i vostri occhi. In ogni città o villaggio d'Europa c'è uno di questi luoghi misteriosi che gli uomini amano più della casa del missionario. Di cui già i bambini sognano e con il quale volentieri giocano nel pensiero.

Il cinema è una capanna, più grande della grande capanna del capo Upolu, sì molto più grande. E' buia anche in pieno giorno, tanto che ciascuno non può riconoscere chi gli sta accanto. Così che si resta acccecati quando si entra, ma ancora più accecati quando si torna fuori. Qui la gente entra e si avvia tastando il muro, fino a che una vergine arriva con un piccolo lampo nella mano  e la guida dove c'è posto per sedere. stretti stretti i Papalagi siedono tutti in fila nel buio, nessuno vede il vicino, la buia capanna è colma di gente in silenzio. Ciascuno siede sulla sua piccola panca e tutte le piccole panche sono volte verso una parete.

Dal fondo di questa parete, come dal profondo di un burrone, sale un gran rumore e un ronzio, e, non appena gli occhi si sono abituati all'oscurità, si riconosce un Papalagi che, seduto, lotta con un cassone. Con le dita tese di entrambe le mani batte sopratante minuscole lingue bianche e nere che il cassone butta fuori, e ogni lingua stride forte e dà a ogni tocco un suono diverso, così che ne nasce uno stridore furioso come in un grande litigio in un villaggio.

Questo rumore dovrebbe distrarre i nostri sensi e indebolirli, affinchè crediamo a ciò che vediamo e non dubitiamo che è vero e reale. proprio davanti alla parete si irradia una luce molto forte, come se sulla parete battesse un fortissimo raggio di luna, e in questa luce ci sono uomini che sembrano e vestono come veri Papalagi, che si muovono e vanno avanti e indietro, camminano , ridono, saltano, proprio come in Europa si fa dappertutto. E' come il riflesso della luna nella laguna. E' la luna eppure non lo è. Così anche questo è soltanto un riflesso. Ciascuno muove la bocca, nessuno dubita che parlino, eppure non si ode un solo suono e parola alcuna, per quanto si faccia attenzione ad ascoltare e per quanto sia fastidioso non udire nulla. E questo è anche il motivo principale perchè quel Papalagi batte sul cassone nero: esso deve dare l'impressione che le voci non si possano udire a causa di quel rumore. E per questo sulla parete di tanto in tanto appaiono delle scritte che annunciano ciò che il Papalagi ha detto o dirà.

Tuttavia, queste persone non sono creature vere. se si volessero afferrare, ci si accorgerebbe che sono fatte di luce e che non si possono prendere. Sono lì soltanto per mostrare al Papalagi le sue gioie e i suoi dolori, le sue follie e le sue debolezze. Così lui vede le donne e gli uomini più belli proprio vicinissimi. Anche se sono muti, lui vede i loro movimenti e il luccichio dei loro occhi. Anzi, sembra che gli sorridano e che gli vogliano parlare. Così vede anche i massimi capi, con cui mai potrebbe parlare, li vede da vicino e indisturbato, come fossero suoi pari. Prende parte ai grandi banchetti, a ricevimenti e ad altre feste, così che gli pare di essere dappertutto, sedere a banchetto e far festa con loro. ma vede anche come un Papalagi rapisce una fanciulla alla famiglia. O come una fanciulla è infedele al suo giovane amante. Vede come un uomo cattivo afferra alla gola un ricco signore e come le dita affondano nella carne della sua gola e gli occhi del signore escono dalle orbite, lo vede morto e vede l'uomo cattivo strappargli dai panni il metallo rotondo e la carta pesante.

Mentre l'occhio del Papalagi guarda tutte queste cose liete o orribili, lui se ne deve stare seduto immobile; non può ammonire la fanciulla infedele, non può accorrere in aiuto del ricco signore per salvarlo. Ma questo non dà alcun dolore al Papalagi; anzi, egli guarda ogni cosa con grande voluttà, come se non avesse cuore. Non prova nessuno spavento e nessun orrore. Osserva tutto come se lui stesso fosse una creatura del tutto diversa. Poichè colui che sta a guardare è sempre fermamente convinto di essere il migliore degli uomini che vede nella luce, e che lui non farebbe mai tutte le follie che gli vengono mostrte. Sta zitto, trattenendo il respiro, e i suoi occhi pendono dalla parete, e, non appena vede un cuore forte o una nobile immagine, se la prende nel cuore e pensa:«Questa è la mia immagine». Siede lì completamente immobile sulla sua panca e fissa la ritta parete liscia su cui nulla vive, se non ingannevoli riflessi che un mago vi getta da dietro, da una stretta apertura nella parete opposta. Per cui, così, tante cose vivono di una falsa vita. Assorbire dentro di sè queste false immagini, che non hanno una vita reale, questo è ciò che procura al Papalagi un così intenso godimento. In questa stanza buia egli può entrare nella falsa vita senza vergogna e senza che gli altri vedano i suoi occhi. Il povero può fare la parte del ricco, il malato quella del sano, il debole quella del forte. Ciascuno lì nel buio può prendere quello che vuole e vivere una falsa vita, fare ciò che nella vita reale mai e poi mai riuscirebbe a fare.

Darsi in tal modo alla falsa vita è diventata una grande passione del Papalagi, una passione spesso così grande che in essa egli dimentica la sua vita vera. Questa passione è una cosa malata, perchè l'uomo giusto non vuole vivere una vita falsa nel buio di una stanza, ma vuole viverne una calda e reale alla luce del sole. La conseguenza di questa passione è che molti Papalagi che escono dal luogo della falsa vita non sanno poi più distinguere questa dalla vita reale e restano confusi e smarriti, si credono ricchi quando sono poveri, o belli quando soo brutti. Oppure fanno cose orribili, che mai avrebbero fatto nella loro vita reale, ma le fanno perchè non sanno più distinguere ciò che è vero da cio che non lo è. E' uno stato molto simile a quello che noi tutti conosciamo negli europei quando hanno bevuto troppa kava europe e credono di camminare sul mare.

Anche le molte carte ottengono sul papalagi un effetto molto simile di ebbrezza e di frenesia. Che cosa sono le molte carte ? Immaginate una stuoia di tapa sottile, bianca, ripiegata, divisa e poi ancora ripiegata, con tutti i lati ricoperti da segni fittissimi: queste sono le molte carte o, come il Papalagi le chiama, i giornali.

In queste carte si trova la grande intelligenza del Papalagi. Li ogni mattina e ogni sera deve tenerci dentro la testa per riempirla e saziarla, per poter meglio pensare e aver dentro tante cose; come il cavallo che corre meglio se ha mangiato molte banana e ha la pancia ben piena. Il signore sta ancora sulla sua stuoia, che già i messaggeri corrono per tutto il paese e distribuiscono le molte carte, E' la prima cosa che il Papalagi fa quando si sveglia dal sonno. Legge. affonda gli occhi in quello che le molte carte gli raccontano. E tutti i Papalagi fanno la stessa cosa, leggono. Leggono quello che i grandi capi e i massimi oratori d'Europa hanno detto nei loro ricevimenti. Tutto ciò sta esattamente segnato sulla stuoia bianca, anche se è una cosa molto stupida. Anche i panni che avevano addosso sono minutamente descritti, e quello che i grandi signori hanno mangiato, come si chiama il loro cavallo, se soffrono di elefantiasi o se hanno deboli pensieri.

Ciò che loro raccontano, nel nostro paese si potrebbe leggere come segue: «Il giudice di Matautu questa mattina, dopo un buon sonno, ha per prima cosa mangiato un avanzo del taro della sera precedente, poi è andato a pescare, a mezzogiorno è tornato nella sua capanna, si è steso sulla sua stuoia e ha cantato e ha letto la Bibbia fino a sera. Sua moglie Sina ha dapprima allattato il suo bambino, poi è andata al bagno e lungo la strada ha trovato un bel fiore di Pua, che si è messa come ornamento nei capelli» E via di questo passo.

Tutto, tutto ciò che accade e che la gente fa e non fa, tutto viene raccontato: i loro buoni e cattivi pensieri, se hanno ammazzato una gallina o un maiale, se si sono costruiti una nuova canoa. Non succede nulla in tutto il paese che queste stuoie bianche non riportino fedelmente. Il Papalagi chiama questo: essere ben informato. Vuole essere al corrente di tutto quello che da un tramonto all'altro accade nel paese. E' indignato se qualcosa gli sfugge. Beve tutto con grande avidità. Sebbene vi trovi anche le cose più orribili e tutto ciò che la sana mente di un uomo vorrebbe al più presto dimenticare. Già, proprio queste, le cose cattive, che fanno male, vengono raccontate ancor più dettagliatamente delle cose buone, in tutti i minimi particolari, come se raccontare il buono non fosse meglio e più importante e più allegro che raccontare tutto il male.

Quando tu leggi il giornale, non hai più bisogno di andare ad Apolima, a Manono o Savaii per sapere che cosa fanno i tuoi amici, che cosa pensano e che cosa festeggiano. Puoi stare tranquillamente sulla tua stuoia: le molte carte ti racconteranno tutto. Questo sembra bello e gradevole, ma è soltanto un inganno. Perchè quando tu incontri tuo fratello e ciascuno dei due ha già tenuto la testa affondata nelle molte carte, allora non avrete più niente di speciale da raccontarvi a vicenda, perchè ciascuno avà nella testa esattamente le stesse cose, e allora o resterete in silenzio o vi ripeterete soltanto quello che dicono le molte carte. Sono invece tanto più belle cantare una canzone o festeggiare un evento o soffrire una pena, che non trovarsi tutto raccontato da bocche straniere e non averklo visto con i propri occhi.

Ma ciò che fa i giornali così dannosi per il nostro spirito, non è quello che ci raccontano, ma piuttosto il fatto che essi ci dicono anche ciò che dobbiamo pensare di questo e di quello, dei nostri grandi capi o dei capi di altri paesi, degli avvenimenti e di tutto il fare degli uomini. Il giornale vorrebbe fare di tutti gli uomini una testa sola, esso è nemico della mia testa e del mio pensiero. Pretende di imporre a ciascuno la propria testa e il proprio pensiero. E riesce anche ad ottenerlo. Quando tu la mattina leggi le molte carte, sai già a mezzogiorno che cosa ogni altro Papalagi ha nella testa e che cosa pensa.

Il giornale è anche una specie di macchina che fabbrica ogni giorno nuovi pensieri, molti di più di quanto una sola testa possa fare. Ma la maggior parte di essi sono deboli pensieri senza fierezza ne forza; riempiono, sì, le nostre teste con molto nutrimento, ma non le rendono più forti. Potremmo nello stesso modo anche riempire le nostre teste di sabbia. Il Papalagi riempie la sua testa con tutto questo grande nutrimento di carta. Prima che possa buttarne via uno, già ha davanti il seguente. La sua testa è come le paludi delle mangrovie, che soffocano nel loro stesso limo, dove non crescono più nè verde nè frutti, dove salgono solo cattivi vapori e ronzano intorno sciami d'insetti pungenti.

Il luogo della falsa vita e le molte carte hanno reso il Papalagi ciò che egli è ora: un uomo debole e smarrito, che ama ciò che non è vero, che non riconosce più ciò che è vero, e prende il riflesso della luna per la vera luna e una stuoia scritta per la vita stessa.